Quando si valuta l’acquisto di un capo in pelle non animale, occorre distinguere i materiali cruelty-free da quelli eco-friendly
Se nella piccola pelletteria come cinture, portafogli e portachiavi le istanze animaliste faticano a farsi largo tra i brand, che pure da anni hanno rinunciato per esempio alle pellicce nelle loro collezioni, nelle borse e nei capispalla la vera pelle continua ad esercitare un certo fascino tra i clienti, che solo in parte hanno deciso di modificare le proprie abitudini di acquisto e di virare sull'alternativa ecologica. Quella che tuttavia a prima vista pare essere la scelta più consapevole e a minore impatto ambientale rischia di diventare un'arma a doppio taglio di cui essere consapevoli se non si vuole rischiare di alimentare un fenomeno insidioso come il greenwashing.
Quando si prende in considerazione l'acquisto di un capo non di pelle animale, occorre distinguere i materiali cruelty-free da quelli eco-friendly. La produzione di un capo che all'apparenza non mette a rischio le specie animali può infatti danneggiare l'ambiente se quelle che vengono impropriamente chiamate pelli vegane sono costituite da polimeri plastici come il poliuretano e il cloruro di polivinile. Questi materiali a base di petrolio rilasciano nell'ambiente delle microplastiche che necessitano di secoli prima di riuscire a essere smaltite nell'ambiente, con danni incalcolabili per flora e fauna: quando si dice che la toppa è peggio del buco.
Che fare allora? Se alcuni marchi di moda derogano ai principi di sostenibilità, occorre che cresca la consapevolezza tra i consumatori, che prima di acquistare un capo dovranno informarsi sulla composizione e la provenienza dei materiali. In vista delle nuove misure restrittive previste dall'Ue per mettere fine al fast fashion entro il 2030, molti marchi stanno introducendo nelle proprie collezioni materiali a base vegetale, detti comunemente anche pelli vegane, che hanno il grande merito di essere cruelty-free, a basso impatto ambientale e a lunga durata. Queste varietà di materiali attingono da fonti naturali come foglie di ananas, funghi, kombucha, che sarebbe una coltura simbionte di lieviti e batteri da cui si ricava anche il the, e persino rifiuti agricoli, tutti biodegradabili e facilmente riciclabili. Tra i brand più pionieristici troviamo senz'altro Stella McCartney, che la scorsa primavera ha debuttato con un'intera collezione prêt-à-porter in materiale vegetale realizzato con il Mylo, ricavato dal micelio dei funghi.
Allo stesso tempo, Allbirds ha aperto la strada a quella che potrebbe essere il primo materiale simile alla pelle e a base vegetale con un impatto sul carbonio 40 volte inferiore rispetto alla pelle animale e con emissioni 17 volte inferiori rispetto a quelle prodotte da pelli sintetiche. Benefici comprovati già dal Rapporto di sostenibilità 2018 sviluppato da Kering e citato da Surface, in cui si rileva che l'impatto della produzione di materiale vegetale può essere inferiore di un terzo rispetto a quello della pelle di origine animale. Se ne sono accorti anche marchi come Hermès, Adidas e Lululemon, che cercano di recuperare il ritardo iniziando a sperimentare capi con materiali a base vegetale. Una piccola grande rivoluzione che sa di green, ma per davvero.